Restano meno in terapia intensiva, crescono meglio e più in fretta, si stabilizzano in tempi più rapidi. Sono i neonati prematuri “coccolati”, dove per coccole si intendono tante cose: accarezzare le loro manine nell’incubatrice, massaggiarli, parlare e cantare mentre sono attaccati a tubi e fili. Attività che secondo Fabrizio Ferrari, direttore della Neonatologia del Policlinico di Modena, unico centro Nidcap in Italia, devono compensare tutte quelle volte in cui medici e infermieri si avvicinano alle culle per inserire una cannula e un catetere, fare un prelievo, misurare un parametro vitale. Ferrari è reduce dall’incontro annuale che i ricercatori di Boston, inventori del metodo Nidcap che parte, in sostanza, dai bisogni dei bambini per una loro ripresa migliore, hanno tenuto la settimana scorsa a Bologna. Per consentire agli addetti ai lavori di confrontarsi sulla materia.
Ferrari, quanti prematuri registrate, ogni anno?
“L’anno scorso abbiamo avuto circa ottanta bambini sotto il chilo e mezzo. Di questi, circa trenta pensavano meno di un chilo, essendo nati prima della 32esima settimana di gestazione. Il dato, a livello nazionale, è in graduale aumento, anche se in Italia i prematuri costituiscono il 7% dei nati totali, a differenza che in Inghilterra e negli Stati Uniti, dove sono il 12-13%. Noi, perché in Italia questo è il termine della vivibilità, siamo chiamati ad assistere i bambini nati dalla 23esima settimana di gravidanza”.
I motivi, ancora, non sono stati studiati. Lei si è fatto un’idea?
“In generale, l’aumento della prematurità potrebbe essere legato all’età sempre più tardiva alla quale le donne fanno figli. Parlando di Modena, da noi il 50% dei nati è extracomunitario. Il problema dello stress sociale delle famiglie, magari arrivate qui da pochi mesi e pochi anni, potrebbe in effetti non favorire la nascita a termine”.
Che modello avete scelto?
“Quello della terapia intensiva neonatale aperta 24 ore su 24, della promozione della presenza delle mamme e dei papà in reparto. Non si può pensare di far crescere dei bambini nati così piccoli solo con ventilatori, cannule e cateteri. Secondo il vecchio approccio, si era abituati a disturbare i prematuri dalle 120 alle 200 volte al giorno per staccare e attaccare elettrodi, per posizionare tubi, per forarli. Manovre che comportano stress e sofferenza ai bambini: le coccole servono a compensare tutto questo, ma anche a ricongiungere i genitori, lacerati dall’evento terribile della nascita in anticipo, il più delle volte inaspettata. Noi, da qualche anno, abbiamo scelto di toccare di meno i bambini, di lasciarli dormire se stanno dormendo, visto che il sonno va promosso. Abbiamo anche promosso la nascita di un’associazione di genitori, Pollicino. Ci abbiamo messo undici anni, in ogni caso, ad avere il riconoscimento Nidcap, arrivato nel 2013”.
Anche il personale sanitario e non è chiamato ad avere un ruolo nel coccolare i piccoli?
“Si fa quel che si può. Noi abbiamo un rapporto di un infermiere per tre bambini. Il lavoro è molto. Preferiamo insegnare alle mamme e ai papà, che spesso sono terrorizzati dalla macchine, vorrebbero scappare e preferirebbero non entrare per non vedere i loro figli in quelle condizioni, come si fa”.
Con che effetti?
“Il bimbo coccolato recupera più in fretta, ha risultati migliori alla risonanza magnetica e all’elettroencefalogramma, ha una crescita più armonica. In situazioni come queste, non si può pensare di ottenere risultati straordinari solo con le macchine, per quanto servano. Adesso, su dieci bambini, ne sopravvivono nove. Un tempo erano in nove a non farcela. Ma la parte tecnica non è mai sufficiente”.
Ci si abitua, a questa sofferenza?
“No, ogni storia è toccante a modo suo. Si entra nell’intimità delle famiglie, si diventa amici e parenti. Ora abbiamo 30 bambini in neonatologia, di cui 15 in Terapia intensiva neonatale: è sempre una sfida nuova, per noi”.
Qual è la prossima frontiera che vorrebbe varcare?
“Vorrei che conoscessimo meglio le culture e le abitudini degli stranieri per accogliere meglio le famiglie non italiane. La comunicazione, nel nostro lavoro, è tutto: saper accogliere fa la differenza”.
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