
“Lui è sereno, ha accettato la malattia. Ha una forza e un cuore incredibili e cerca di non pesare troppo sulle nostre spalle. Poi sono umana, tante volte piango, mi arrabbio, mi dispero. Ma cerchiamo, per quel che possiamo, di vivere”. Debora Donati ha 39 anni, è mamma di tre figlie di 14, 12 e 6 anni – Caterina, Carolina e Camilla – e dal 2013, da quando in casa fervevano i preparativi per le nozze con Dario Alvisi, il papà delle sue bambine, convive con la Sla, una malattia rara che colpisce le cellule cerebrali addette al controllo dei muscolo, diagnosticata a suo marito nel giro di pochissimo tempo dall’esordio dei primi sintomi.
Una malattia che è stata velocissima e aggressiva, paralizzandolo e costringendo i medici alla tracheotomia e alla Peg per la nutrizione enterale, tutto nel giro di sei mesi. Oggi Dario, 44 anni, ex responsabile di una cooperativa della ristorazione, non parla e ha perso anche l’uso dei muscoli degli occhi, che sono praticamente sempre chiusi. Cosa che gli impedisce di utilizzare, per le comunicazioni, il tablet a controllo oculare che usa invece il ravennate Fabio Bazzocchi, anche lui malato di Sla (di cui avevamo raccontato la storia qui).
Dalla sua casa nelle campagne di Faenza Dario tenta un contatto col mondo grazie a “Brain control”, un ausilio di ultima generazione che registra le scariche elettriche collegate ai neuroni cerebrali, consentendo ai pazienti – di cui viene rilevato il movimento – di avere accesso a frasario e di selezionare sì, no o non so davanti a una domanda: “Per fortuna Dario ancora sente – spiega la moglie – e con questo dispositivo, che ci è stato donato da Assisla, possiamo capire che cosa prova, che cosa desidera. Prima che ce lo donassero, siamo stati un anno nel baratro, senza la possibilità di sapere nulla da lui. Da fuori può sembrare una banalità, invece è un regalo che ci ha ridato speranza, che ci ha fatto riprendere forza”.
Forza che Debora e la famiglia stanno trovando anche nella fede: “Siamo semore stati cattolici non praticanti. Abbiamo avuto tre figlie da non sposati, non siamo gente bigotta. Ci saremmo dovuti sposare il 20 luglio del 2013, avevo già fatto marcare le fedi con la data. Avevamo finito la casa, avevamo tre bambine, ci consideravamo all’apice della realizzazione e della felicità, pronti a fare il grande passo. Stavo per andarmi a provare l’abito quando mio marito mi ha detto che si sentiva stranamente stanco. Da lì, una serie di esami ci hanno portato alla triste scoperta, resa più facile dal fatto che la mamma di Dario, scomparsa quando lui aveva solo dieci anni, con tutta probabilità morì di Sla. Ho in mente ancora quando ce l’hanno detto, a Milano, con una freddezza incredibile che per fortuna non abbiamo trovato negli ospedali di Faenza e Forlì, dove ci hanno accolto con umanità e calore”.
Sulle fedi, poco dopo, la data delle nozze programmate è stata sostituita da quella in cui Debora e Dario si sono conosciuti: “Alla fine ci siamo sposati comunque in chiesa, in marzo. Ma eravamo solo otto compreso il prete: noi due, le bambine, mia mamma e mio suocero come testimoni. I nostri amici ci hanno organizzato una festa lo stesso, più avanti, per dimostrarci quanto ci tenevano. E poi è iniziata la lenta decadenza di mio marito: il giorno prima era riuscito a salire in macchina e il giorno dopo no, il giorno prima aveva aperto uno sportello della cucina e il giorno dopo non ce la faceva già più. Una rapidità che ci ha costretti a una corsa contro il tempo”.

Corsa durante la quale Dario e la famiglia sono stati ricevuti dal Papa in Vaticano, dove vorrebbero tornare a breve: “Da qualche tempo abbiamo ripreso a viaggiare, azzardando un po’ e contando sull’aiuto degli amici. Siamo stati a Medjugorje la scorsa estate, con l’ambulanza, un pulmino e i volontari di Cosmohelp, affrontando un viaggio lungo e riuscendo a portare Dario fino alla Croce blu. Siamo stati di recente a Venezia con una coppia di amici, riuscendo a trasportare mio marito sul traghetto. Non ci vogliamo fermare. Il sacrificio le le rinunce che la malattia impone sono tante, abbiamo voglia di riprenderci un po’ la vita“.
Discorso che vale a maggior ragione per Caterina, Carolina e Camilla: “Le due maggiori hanno imparato da molto piccole a usare l’aspiratore, a chiamare l’ambulanza. Oltre a non poter avere il loro papà come vorrebbero, temono i giudizi della gente. La piccola, che non può ricordare Dario sano, chiede spesso quando tornerà a camminare. Sono bambine che hanno visto da subito tanta sofferenza, che credo le abbia formate: non possono sempre andare dove vorrebbero, devono stare ai ritmi dell’assistenza che serve al papà“.
L’assistenza, che Debora ammette essere il problema principale per i malati di Sla, al momento non sta toccando troppo la sua famiglia: “Io lavoro in uno studio dentistico, riesco a occuparmi di Dario con l’aiuto di mia mamma. Le notti le ho sempre fatte io, in questi ultimi quattro anni. E mio marito, anche se magari è sveglio, fa di tutto perché non me ne accorga, sicuramente per non farmelo pesare e evitare che io assuma qualcuno che lo segua. Viviamo con il mio stipendio, la sua pensione d’invalidità e l’assegno di cura. L’Asl ci passa una Oss che viene un’ora e mezzo al giorno, dal lunedì al sabato, per le cure igieniche più importanti. Per il resto, riusciamo ad arrangiarci. Ed è un bene anche perché non abbiamo sempre la casa invasa di estranei. Gli stessi nostri amici, con cui siamo in confidenza, capiscono la delicatezza della situazione e sanno quando è il caso di restare e quando no”.
Certo è che l’equilibrio che Debora è riuscita a raggiungere è anche frutto di grande sofferenza: “Non sono ipocrita, tutto questo lo avrei volentieri evitato. E quando mi dicono che basta l’amore, rispondo che non è proprio così: a me manca la vita di coppia con mio marito, ho nostalgia di quanto potevamo vivere e condividere. Si tira avanti comunque, perché ci sono le bambine e perché ci sei in mezzo. Certi giorni sorridi, altri vorresti mandare tutto all’aria”.
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