Sentirsi sempre qualcosa di meno. Pensare di non meritare persone di spessore al proprio fianco. Stare zitta, sempre zitta. Nascondersi, non emergere mai. Che adulti diventano, i bambini abusati? Se lo sta chiedendo da qualche anno Marina, 53 anni, romagnola, che dopo una vita di silenzi ha scelto di raccontare la propria storia, se non altro per rompere la catena dei non detti che si sono perpetuati nel tempo e sensibilizzare i genitori.
Anche Marina è una mamma, ha due figli ormai grandi ai quali ha sempre cercato di rivolgere lo sguardo più attento possibile: “I miei genitori, invece, hanno sempre finto di non vedere. Ero quasi in prima elementare quando un amico di famiglia mi mise le mani nelle mutandine, un giorno che era a casa nostra. Quella scena fu vista da sua moglie, che mi ordinò immediatamente di tacere, di non dire niente a nessuno. Il suo monito è tutt’oggi martellante. Perché il suo ‘stai zitta’ mi ha segnata per tutta la vita. Diventai subito una bambina molto taciturna, in terza elementare la maestra mi cacciò fuori dall’aula perché non aprivo bocca. Non parlavo nemmeno a casa, credo. Ero l’unica femmina su quattro figli, facevo le cose che mi venivano chieste, senza avanzare esigenze mie, senza esporre i miei bisogni. Ero scomoda, lo capisco ora: se avessi rivelato che ero stata abusata, sarebbe successo il caos. Ma io, così, sono cresciuta pensando che quella che doveva vergognarsi ero io, che quella sbagliata ero io, che quella in colpa ero io“.
Con Marina il destino gioca un brutto scherzo una seconda volta, tra la quinta elementare e la prima media: “Ero in piscina quando il guardarobiere, amico di mio nonno, aprì la porta dello spogliatoio, mi toccò e mise la mia mano nelle sue mutande. Mia madre era fuori con i miei fratelli: ancora una volta non si accorse o finse di non accorgersi di nulla. E io oggi, a distanza di quarant’anni, con lei malata e incapace di darmi una risposta, mi chiedo come sia possibile non vedere gli occhi terrorizzati di un figlio, la paura. Quell’episodio, come il primo, mi ha rubato l’infanzia. Una delle cose più belle al mondo, crescere e scoprire l’altro, anche dal punto di vista fisico, per me fa rima con violenza. Una violenza che tutti hanno scelto di non affrontare. Sono sicura che se avessi rivelato che cosa mi ero successo, sarei stata picchiata e invitata a stare di nuovo zitta”.
Con il tempo, Marina ha cercato di compensare quello che le è stato negato restituendo protezione e amore ai bambini che ha incontrato e che incontra: “Non solo i miei figli ma anche i bambini che vedo in piscina, dove lavoro. Con loro ho sempre usato la terapia dell’abbraccio, soprattutto quando le prime volte sono disorientati e spaventati. Lo faccio nello stesso impianto che per me è stato il luogo dell’orrore, da ragazzina. Lì dove ogni volta mi torna in mente quello che ho subito”.
Portare allo scoperto la propria storia non è solo terapeutico, per Marina. Ha anche, infatti, una valenza sociale: “Quando si parla di abusi e pedofilia, ci si concentra troppo sulla persona che ha commesso il reato, sulla condanna che avrà e su quello che si merita. Si parla pochissimo di cosa ne sarà di quei bambini, di che adulti saranno. Io sono diventata una donna piena di muri, quelli che ho eretto per difendermi da tutti e da tutto. Non avevo altre armi a disposizione per affrontare il mondo, me le hanno portate via da bambina. Per molto tempo mi sono nascosta dietro maglioni larghissimi per evitare che si accorgessero della mia presenza. Anche quando ero sposata, difficilmente dicevo la mia. E nemmeno il mio ex marito è stato in grado di aiutarmi a tirare fuori, a superare. Ancora oggi continuo a pensare ‘ma chi mi vuole?’, ‘ma chi mi prende?’. Sull’autostima le conseguenze sono devastanti, così come sul mio sentirmi una donna e una persona libera”.
E oggi, tutti i silenzi che Marina ha esercitato sono come un boomerang: “Allora, forse, non parlai per non dare un dolore e un dispiacere ai miei. E oggi che voglio raccontare, perché sento di essere in un momento in cui non si va né avanti né indietro, l’ascolto mi è negato. Ho provato a parlare con i miei fratelli, a mandare loro lettere. Ma ho trovato un muro. Vedere, anche se a distanza di anni, significa rimettersi in discussione, scardinare le proprie certezze, prendersi la propria fetta di responsabilità, anche se piccola”.
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