Lei operatrice socio-sanitaria part-time, per gestire i tre figli di tredici, otto e tre anni. Lui capo-reparto in un supermercato con orario spezzato. Ma cosa succede se lei si fa male a pochi giorni da un’operazione programmata del bambino più piccolo e lui chiede all’azienda, per un paio di mesi, di venirgli incontro? Il putiferio.
La paradossale vicenda, che sul tema della conciliazione famiglia-lavoro la dice lunga, è successa il mese scorso ad Anna (nome di fantasia), una mamma di Ravenna. A fine agosto, la donna – mentre è in vacanza con il marito e i figli – si rompe una gamba. Mancano pochi giorni all’intervento alle tonsille e adenoidi del figlio minore: “Mio marito, tramite sindacato, ha mandato al suo datore di lavoro la richiesta di entrare per due mesi alle otto anziché alle sei, in modo da riuscire a portare i bambini a scuola, cosa di cui mi sono sempre occupata io. Ha aggiunto la richiesta di non lavorare il martedì pomeriggio, quando mio figlio di mezzo fa il rientro a scuola e alle quattro e mezza è da andare a prendere. Non possiamo contare sui nonni, la gestione dei bambini è sulle mie spalle. Ma in quel momento non potevo, per problemi fisici, pensarci io”.
La risposta dell’azienda è laconica: “Non si può fare”. Non si può fare nonostante, lettera alla mano, la richiesta sia stata avanzata per un motivo reale e valido: infermità temporanea della moglie. “Mio marito, a questo punto, ha chiesto di prendersi un periodo di congedo parentale, che gli spetta di diritto. Ma si è beccato un’altra porta chiusa in faccia: l’azienda si è giustificata dicendo che il congedo andava chiesto con quindici giorni di anticipo, come è scritto sul contratto della categoria alla quale appartiene, che non essendo stato rinnovato, è in linea con la vecchia normativa”.
Con l’inizio della scuola alle porte, il gesso alla gamba e il bimbo piccolo in convalescenza, Anna e il marito non hanno avuto altra scelta: “Abbiamo dovuto chiamare una baby sitter. Anche perché, nonostante mio marito l’abbia fatto presente, gli orari pomeridiani cambiano di settimana in settimana e non c’è modo di fare un minimo di programmazione familiare”.
Per tenersi stretto il lavoro il marito non ha pensato di protestare oltre: “Davanti al rifiuto di un datore di lavoro, davanti a chi ti dice che non sei l’unico ad avere figli, sei impotente. La modifica di orario chiesta da mio marito, oltretutto per poco tempo, era irrisoria. Avrebbe comunque dato disponibilità a lavorare la sera o di domenica. Ma, impotente, ha dovuto soccombere. E poi ci dicono di fare i figli? La conciliazione, in molti casi, non è possibile”.
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