IMG_7087 “Cento volte Anita”. La scritta che Erika Galassi, 42 anni, si è fatta tatuare sul braccio destro, la dice lunga sul livello di accettazione rispetto alla malattia della figlia, sette anni e mezzo, affetta da una malattia neurologica non degenerativa, la sindrome di Pitt Hopkins, che nel mondo colpisce 500 persone: “Se dovessi tornare indietro e partorire, vorrei ripartorire lei, nessun altro che lei. Siamo una famiglia felice nonostante il problema di Anita e la disabilità del mio compagno, Cesare, che dopo un incidente stradale è rimasto invalido e non può lavorare. Credo che mia figlia abbia scelto me: per stare accanto a bambini speciali, ci vogliono mamme speciali. Altrimenti, se ci fosse il rifiuto della malattia, soccomberemmo insieme ai nostri bambini, schiacciate dal senso di colpa”.

Anita, che frequenta la prima elementare a Cesenatico, fa ancora fatica a camminare e parlare, anche se grazie alle terapie – la fisioterapia in acqua, l’ippoterapia e l’ossigenoterapia in camera iperbarica – sta migliorando su molti fronti, da quello cognitivo a quello motorio. E le apnee notturne sono diminuite in modo drastico. Il problema è che, senza l’aiuto delle persone solidali e delle associazioni – da Chi Burdèl all’Unitalsi, passando per Impronte di solidarietà – affrontare tutte le spese sarebbe impossibile: “Io, per seguire Anita, sono costretta a non lavorare, anche perché non ho aiuti da parte dei nonni. Viviamo con la pensione di invalidità e l’assegno di cura di mia figlia e del papà, che però non bastano a coprire tutte le uscite. Abbiamo chiesto una casa popolare ma ci hanno detto di aspettare il nuovo bando, non siamo stati ammessi in deroga. Abbiamo fatto richiesta di un contributo per l’affitto ma ci è stato negato. Il nostro Isee è di 757 euro: dobbiamo mangiare, portare Anita alle visite, pagare le cure, l’affitto e le bollette. Tante volte ci sentiamo abbandonati dalle istituzioni”.

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Erika Galassi

Quello che Erika riscontra nel quotidiano, al contrario, è un grande senso di altruismo da parte della gente: “Anita ha iniziato a frequentare l’Iperbarico perché Chi Burdèl ha raccolto i soldi. Sempre grazie all’associazione abbiamo potuto acquistare un’auto che ci consente di raggiungere i luoghi delle terapie. L’Asl ci passa logopedia e fisioterapia. Il resto, come la piscina, lo possiamo pagare grazie all’aiuto di chi ci prende cuore”.

In questi anni, e soprattutto dopo la diagnosi, che Anita ha avuto solo nel 2014, Erika si è molto avvicinata alla fede. E il 2 aprile scorso, insieme alla figlia e al compagno, è andata a Carpi dal Papa, al quale ha consegnato una lettera in cui si parla delle mamme speciali: “Un momento indimenticabile, di sguardi e intensità, che ero certa un giorno avremmo vissuto insieme, noi tre. Era una promessa che avevamo fatto ad Anita dopo essere stati a Medjugore e a Lourdes. Io non perdo mai di vista il fatto che volere è potere”.

Se ripensa alla sua vita prima di Anita, Erika è certa che fosse peggiore di ora: “Se non fosse per i soldi, che mancano sempre, avremmo tutto. Lo dico anche se, per molti versi, si può pensare che a causa di tutti i problemi non abbiamo proprio niente. Invece, quando sei in una situazione come la nostra, così come vivi il dolore in maniera estrema, vivi allo stesso modo la felicità, quando arriva“.

Certo, i momenti di sconforto non mancano: “La sindrome di Anita è stata chiamata anche sindrome del bambino selvaggio. Quando ha dolore o quando non si sente accettata, per esempio se io e Cesare siamo stanchi o nervosi, viene fuori tutta la sua aggressività. Sono finita diverse volte in pronto soccorso. Ma quando tutto torna alla normalità, mi dico che poteva andare molto peggio”.